Acquisizioni

Valorizzare il patrimonio dei Musei nazionali significa anche recuperare opere nate a Lucca o commissionate per Lucca, allo scopo di ricostituire nuclei smembrati, ricollocare nelle sedi originali oggetti d’arte, incrementare il corpus di autori locali. Oltre all’acquisto operato sul mercato antiquario o presso collezionisti privati ricorrendo agli appositi finanziamenti ministeriali, le acquisizioni sono incrementate anche grazie alle donazioni dirette di artisti viventi o di loro eredi.

2015

 

A. Bellucci, Allegoria del tempo (olio su tela, cm. 213 x 165, 1705, proveniente dalla collezione Stefano Conti, Lucca)

Il dipinto di Antonio Bellucci, Allegoria del tempo, acquistato dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo per il Museo nazionale di Palazzo Mansi, fu commissionato dal collezionista lucchese Stefano Conti per la quadreria del suo palazzo di città. Il dipinto fu consegnato a Stefano Conti nel 1706 dallo stesso autore insieme ad altre tre tele, due di soggetto mitologico e una a tema religioso.

Nel documento di consegna (pubblicato da Franca Zava Boccazzi, I veneti della Galleria Conti di Lucca 1704-1707, in “Saggi e memorie di storia dell’arte”, 17, 1990, pp. 115-116), riportato anche nell’inventario manoscritto conservato presso l’Archivio di Stato di Lucca (Archivio Guinigi, ms 295), il quadro è così descritto: “Il Tempo fermato dalla Virtù che lo spenna, col Vizzio oppresso sotto i piedi”.

La collezione Conti fu venduta e dispersa dopo il 1771 e molti dipinti sono stati via via individuati e riconosciuti da vari studiosi grazie all’inventario oggi conservato nell’Archivio di Stato di Lucca. Il Museo nazionale di Palazzo Mansi conserva già un dipinto di provenienza Conti (Gregorio Lazzarini, Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia, inv. 752) e l’ingresso del dipinto nella collezione del museo consente di incrementare il nucleo di dipinti provenienti da quadrerie di palazzi lucchesi, purtroppo in gran parte smembrate e disperse, attestando altresì i rapporti che legarono l’artista veneto con la committenza locale.

 

2012

Pompeo Batoni (Lucca 1708-Roma 1787)

1) L'Estasi di Santa Teresa, 1743 circa, olio su tela, 44x35 cm

Il dipinto è stato acquistato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali per prelazione e destinato al Museo nazionale di Villa Guinigi per la sua vicinanza per epoca e soggetto alla tela dello stesso Batoni, raffigurante " L'estasi di Santa Caterina da Siena", dipinta negli stessi anni per l'omonima chiesa di Lucca.

Pompeo Batoni, lucchese di formazione romana, lavorò nella capitale, per famosi mecenati e per il Vaticano, quindi si affermò nell'ambiente internazionale come ritrattista, specie per l'aristocrazia britannica che visitava l'Italia durante il Gran Tour, nonché per le allegorie e le storie dei santi che dipinse per le corti di Parma e Caserta.

Grazie alla mostra monografica "L'Europa delle corti e il Gran Tour" presentata al Palazzo Ducale di Lucca nel 2008-9, è stata celebrata la figura del pittore, ricostruendo un'ampia panoramica sul catalogo dell'artista.

Il quadro dell'Estasi di Santa Teresa fu dipinto dal Batoni per la Sala dell'Udienza del Palazzo dei nobili Merenda di Forlì, dopodiché questa ed altre nove tele che l'accompagnavano nella stessa collezione, furono disperse.

L'iconografia classica della Santa ripercorre quelli che sono i momenti che solitamente la ritraggono nell'anno della conversione ovvero, quando superate le pene interiori e le malattie, fu trafitta da "angelici dardi infuocati"; questa immagine conobbe una grande fortuna in periodo Barocco, la cui fama crebbe di certo in seguito alla rappresentazione scultorea che ne fece il Bernini a Santa Maria della Vittoria a Roma.

In questo dipinto, come nella statua del Bernini, l'attenzione del pubblico è catturata dalla composizione: la freccia che l'angelo, "piccolo, bellissimo, col volto così infocato che pareva di quegli angeli dei cori più alti", così come lo descrive la Santa, è premuta sul cuore a svilupparne ancora un rinnovato ed ardente amore.

Il viso della Santa, la sua inclinazione nonché l'espressione, ricalca l'iconografia del quadro lucchese di Santa Caterina, distinta da questa per il copricapo e il vestito delle Carmelitane, così che Batoni in una sorta di autocitazione, densa di particolari, chiaro-scuri e vibranti effetti di luce, manifesta esplicitamente il suo interesse per la pittura parmense del cinquecento.

La scena dell'Estasi, in cui gli sguardi dei protagonisti e le loro mani in primo piano sospendono il momento del miracolo, rende bene quello che fu il dichiarato scopo della pittura per Pompeo Batoni: la dimostrazione degli affetti e delle passioni.

2011

Angelo Puccinelli (documentato dal 1380 al 1407)

Madonna con Bambino (Madonna del solletico) 1395 ca., tempera su tavola

 Acquisto coattivo 2011

Il dipinto è stato riconosciuto come opera di Angelo Puccinelli da Miklòs Boskovits; ad esso Andrea De Marchi ha dedicato una breve annotazione nel profilo dedicato all’artista in occasione della mostra Sumptuosa tabula picta. Pittori a Lucca tra gotico e rinascimento (Lucca 1998) e una scheda per il catalogo della mostra sul pittore Battista di Gerio (Lucca 2012), attivo a Lucca, insieme al Puccinelli, durante la signoria di Paolo Guinigi.

La Vergine, che regge fra le braccia il Bambino, è raffigurata in un insolito atteggiamento:  sogguardando con un appena percepibile sorriso il figlio, solletica con le dita affusolate e mobilissime, il collo carnoso ornato da una catenella alla quale sono legati un ramo di corallo e una croce, simbolo del martirio che segnerà il suo destino, e il bimbo sorride con una curiosa smorfietta delle labbra che lascia intravedere il bianco dei piccoli incisivi, afferrando la mano della madre con gesto tenero e naturalissimo. E’ questo un atteggiamento di affetto materno che verrà riproposto, trent’ anni più tardi, anche nel piccolo dipinto di Masaccio intitolato la Madonna del solletico, oggi agli Uffizi.

Nel quadro della pittura toscana  degli ultimi decenni del Trecento, ad Angelo Puccinelli spetta una posizione di primo piano per la ricerca formale da lui condotta attraverso cui, partendo dalla rilettura dei grandi maestri del primo Trecento, elaborerà una pittura originalissima, aspra e tenera insieme che preannuncia e prepara la stagione del gotico internazionale.

Condotta probabilmente a Siena la sua formazione, esegue nel 1386 per la chiesa di Santa Maria Forisportam a Lucca la Dormitio Virginis, dove appone la  sua firma; nel dipinto, l’artista elabora la versione di Giotto oggi nella Gemaldegalerie di Berlino, declinandola in un linguaggio ricco di dettagli e preziosismi, e cimentandosi in un formato verticale scandito da due livelli della rappresentazione, Morte e Assunzione della Vergine.

Nel 1394 Puccinelli firma e data il trittico oggi nella chiesa di San Nicola di Varano (Massa), probabilmente destinato alla chiesa di San Michele a Lucca. Intorno al 1400 è da collocare il centrale di trittico della chiesa dei santi Quirico e Giulitta a Veneri (Pescia) della quale è stata giustamente sottolineata la prorompente vitalità che la pone in parallelo con i primordi dell’arte di Jacopo della Quercia.

Intorno agli stessi anni può essere collocato anche il dipinto qui esposto  per la sovrapponibilità dei volti delle due Madonne dalla medesima inclinazione del collo e dall’identica acconciatura del capo, e per le fattezze del bambino dalla capigliatura riccioluta.

 

 

2010

Bernardino Nocchi (Lucca 1741-Roma 1812)

1) Alexandrine de Bleschamps come Tersicore, da Canova - Eseguito nel primo decennio del sec. XIX - Olio su tela con cornice, 60x74,5 cm

Bernardino Nocchi, formatosi a Lucca, si trasferì a Roma con il collega e compatriota Stefano Tofanelli dove, sotto la protezione Papa Pio VI, si dedicò alla pittura dei Sacri Palazzi Apostolici e alla Stanza delle Stampe della Biblioteca Vaticana.

Nello stesso periodo, Nocchi entrò in contatto con il Canova che gli commissionò la realizzazione del dipinto della Tersicore, ovvero un bozzetto per una statua che sarebbe stata realizzata per la moglie di Luciano Bonaparte.

Il dipinto documenta il primitivo aspetto della statua, ossia il modello idealizzato allegoricamente di Alexandrine de Bleschamps, in veste di Musa della poesia lirica e della danza, come conferma la presenza della lira e dei calzari.

La statua tuttavia fu rifiutata dal committente per un'imperfezione alla candidezza del marmo, ma nonostante ciò fu terminata dal Canova nel 1811 e venduta, non più come ritratto ma come modello di pura invenzione, a Giovan Battista Sommariva.

Il dipinto che realizza Nocchi, secondo lo stile neoclassico per cui l'artista è noto e riconoscibile, fu probabilmente inviato al primo committente per permettergli di conoscere in anticipo l'aspetto della statua in esecuzione: è diviso in due parti per mostrare "le due vedute di faccia e di schiena", in cui l'illuminazione laterale permette l'illustrazione dei curati panneggi; la scenografia è semplice e non per questo meno preziosa, due grandi archi incorniciano la figura creando delle nicchie, mentre la cornice esterna con i riflessi caratteristici del porfido rosso, nobilita ulteriormente la statua.

Questo dipinto si aggiunge all'altro quadro dello stesso autore, Il Pianto d'Ulisse, già conservato nella sezione ottocentesca di Palazzo Mansi.

 

Stefano Toffanelli (Lucca 1752-1812), Il levar del sole o Il carro del Sole

 1781 ca., olio su tela, acquistato nel 2010 per il Museo nazionale di Palazzo Mansi

La scena rappresenta il momento in cui Apollo, avvolto da un ampio panneggio rosso, sta per salire sul carro dorato del sole guidato da quattro cavalli bianchi trattenuti dalle Ore, che simboleggiano il regolare scorrere del tempo mentre putti in volo con fiaccole segnano il passaggio dalla notte al giorno; il corteo è preceduto da Aurora mentre sparge fiori; sulla scalinata sono seduti Cerere, Bacco e una figura di anziano, alle loro spalle Crono viene accompagnato da una Ore verso il carro.

Il dipinto è il bozzetto realizzato come studio per le decorazioni del salone centrale del salone della Villa di Luigi Mansi a Segromigno, dedicata alle storie di Apollo e delle Metamorfosi di Ovidio, eseguita tra gli anni ’80 e ’90 del XVIII secolo dal lucchese Stefano Tofanelli, con l’aiuto del fratello Agostino. Tofanelli fu richiesto dalle famiglie dalle famiglie più in vista di Lucca e ricevette l’incarico di primo pittore di corte sotto il governo di Elisa Baciocchi. Nel 1781 aprì a Lucca una scuola di disegno che riscosse subito un notevole successo: è a questo periodo che risale il bozzetto in esame, da cui emergono il gusto per l’aspetto scultoreo. Sempre su commissione di Luigi Mansi, Tofanelli fece un analogo intervento decorativo a palazzo Mansi, oggi sede del Museo. 

 

Giuseppe Lunardi (Lucca 1879- Firenze 1988)

Donazione Maria Susanna Gherardini, erede del pittore Lunardi; 2010

Sera nello studio di Lucca, 1915, olio su faesite; Ritratto di sorella Fosca, 1921 ca., olio su faesite.

Nella sezione di Palazzo Mansi dedicata all’Arte contemporanea lucchese hanno trovato posto due quadri del pittore donati dalla nipote, Sera nello studio di Lucca, 1915, e Ritratto di sorella Fosca, 1921 ca., che contribuiscono a recuperare la memoria cittadina di una figura così rilevante nel panorama artistico locale della prima metà del Novecento. Fin dall’inizio della sua attività confidando soprattutto sulla proprie competenze di decoratore, di progettista, di architetto, Lunardi fu orientato verso un’arte classicista, nel senso di meditata semplificazione della forma, per approdare poi a quello che è stato definito “un divisionismo senza tempo” calato nella quiete di interni domestici, rappresentati con “perfetta esecuzione del disegno e della tecnica”, armonizzando la “ricerca di modernità con le tradizioni dell’arte italiana”.  Attorno al 1920 Lunardi abbandona anche la pratica divisionista e adotta una pittura mutuata dal pastello e caratterizzata da una stesura a velature che conferisce ai numerosi ritratti un carattere di pacata monumentalità.  Nell’ultimo periodo fiorentino, a contatto con l’ambiente aperto alla valorizzazione delle arti applicate, Lunardi approda a una pittura il cui sintetismo di derivazione francese e le immagini trasognate della natura care al Novecento toscano, sfociano in uno stile squisitamente decorativo. 

 

 

 

 

2008

MARIO NUZZI detto "MARIO DEI FIORI" (Roma 1603 – 1676)

1) "Fiori in vaso di ceramica decorata", olio su tela, cm 98,5x74

2) "Fiori in un vaso metallico manicato decorato a sbalzo", olio su tela, cm 98,5x74

 Proposta per l’acquisto alla Soprintendenza di Lucca e Massa Carrara dall’antiquario Ulisse Bocchi, via Bixio 25,Casalmaggiore (CR), la coppia di tele è stata acquistata dal Ministero per i beni e le attività culturali.

Sono attualmente esposti nel Museo nazionale di Palazzo Mansi.

Entrambi i dipinti hanno una cornice in legno intagliato e decorato con lacca bianca e oro di manifattura lucchese del XVIII secolo. Facevano parte di una serie di undici realizzati da Mario dei Fiori per la nobile famiglia Mansi di Lucca. L’importanza straordinaria di questa identificazione ha consentito di incrementare l’esiguo catalogo del Nuzzi e, nel contempo, un così rilevante incarico commissionato a un pittore quotato in vita alla pari dei grandi figurativi testimonia la potenza economica del casato, all’epoca forse il più facoltoso del territorio lucchese.

La collezione, ricchissima e assai significativa per la confluenza di opere nordiche raccolte da Gaspare che commerciava con le Fiandre e di prestigiosi dipinti selezionati in Italia, purtroppo è stata in massima parte dispersa a seguito di disgraziate vicende che nei secoli l’hanno progressivamente smembrata. Del nucleo originario di dipinti eseguiti da Mario dei Fiori per i Mansi, distribuiti oggi in diverse collezioni private, i quattro in possesso dell’antiquario Bocchi (due dei quali sono quelli acquistati) portano gli stessi numeri impressi a fuoco sul legno e quelli dipinti sulle tele, così come identiche appaiono le cornici del XVIII secolo in lacca bianca e oro, a conferma di un’origine comune rintracciabile con precisione nella collezione Mansi. Ottimo lo stato di conservazione della coppia di dipinti.

 

GASPARE LANDI (Piacenza 1754- Roma 1830)

Ritratto di Teresa Bandettini in Arcadia Amarilli Etrusca, come Musa in un paesaggio ideale, olio su tela, cm 136x98

Proposto per l’acquisto alla Soprintendenza di Lucca e Massa Carrara dall’antiquario Francesca Antonacci, via Margutta 10, Roma, il dipinto è stato acquistata dal Ministero per i beni e le attività culturali.

È attualmente esposta nel Museo nazionale di Palazzo Mansi.

Il dipinto è attribuito da Fernando Mazzocca al piacentino Gaspare Landi artista che a Roma si affermò come uno dei protagonisti della pittura neoclassica. Gli esiti delle sue ricerche e gli approfondimenti sull’uso del colore presso i maestri veneti, imposero ben presto il Landi come uno dei massimi coloristi viventi e l’affinità dei temi avvicinarono la sua pittura alla scultura dell’amico Canova, un modello che il Landi si era prefisso di emulare consapevolmente non solo per espressione sentimentale ma anche per naturalezza.

La tela, in ottimo stato di conservazione, raffigura la poetessa e scrittrice Teresa Bandettini (Lucca 1763-1837), che fu una delle più celebri figure letterarie femminili del tempo. Avviata inizialmente alla carriera di danzatrice, durante i suoi viaggi nell’Italia settentrionale acquisì fama di ballerina letterata, fino a quando, dietro esortazione del marito, dal 1789 cominciò a esibirsi in pubblico come poetessa improvvisatrice. Tenne le sue accademie di improvvisazione in numerose città, entrando in contatto con i maggiori scrittori del tempo, da Pindemonte a Monti, da Parini ad Alfieri, a Bettinelli, che gli fu maestro e amico. Nel 1794 approdò a Roma dove riscosse un immediato successo, venendo accolta in Arcadia col nome di Amarilli Etrusca. Il considerevole valore di testimonianza del dipinto ha motivato ampiamente l’acquisizione: si tratta di un documento prezioso per Lucca da collocare nelle nuove sale del Museo Nazionale di Palazzo Mansi dedicate all’Otto-Novecento, accanto al busto in marmo della poetessa raffigurata nei suoi anni più tardi.

 

PITTORE LUCCHESE (?) DEL XVII SECOLO

La Cappella Barsotti della chiesa di Sant’Agostino a Lucca, eseguito tra1657-1662, olio su tela, cm 73x43

Proposto per l’acquisto alla Soprintendenza di Lucca e Massa Carrara dal Sig. Vincenzo Tani di Lucca, il dipinto è stato acquistato dal Ministero per i beni e le attività culturali.

È attualmente esposto nel Museo nazionale di Palazzo Mansi

Il dipinto, di eccezionale interesse documentario, dà conto dell’aspetto della cappella di patronato della famiglia Barsotti poco dopo la metà del Seicento. La cappella, posta a sinistra dell’altare maggiore nella chiesa di Sant’Agostino di Lucca, era stata affrescata dal pistoiese Giacinto Gemignani (1611-1681) al pari di quella dedicata alla Madonna del Sasso tenuta dalla famiglia Boccella. Soggetto di quella Barsotti, intitolata al Crocifisso, sono due episodi della Passione di Cristo, la Flagellazione e l’Andata al Calvario. L’apparato ornamentale comprende, al di sopra e al di sotto delle due scene, la raffigurazione allegorica delle Virtù cardinali e teologali, condotte a grisaille in guisa di statue, mentre nelle vele della volta compaiono angeli sorreggenti simboli e strumenti della Passione.

Oltre che per la puntuale restituzione dell’assetto ornamentale della cappella, il dipinto si rivela di notevole interesse documentario in quanto testimone di una serie di elementi decorativi oggi non più esistenti. Tra questi l’iscrizione il cui testo, allusivo alla nomina di Giovan Battista Barsotti (Lucca 1603-Praga 1664) a vescovo di Cipro, avvenuta nel 1662, consente di circoscrivere l’esecuzione della tela ad un momento compreso tra il 1657 e il 1662. Della tela, per la quale al momento non sembrano esserci testimonianze documentarie, resta ancora anonimo l’autore, non identificabile col Gemignani,. Il dipinto unico nel suo genere a Lucca è da intendersi non come un bozzetto approntato in vista dell’intervento del pittore pistoiese ma come immagine ‘fotografica’ di come, dopo tale intervento, si presentava la cappella gentilizia.

 

 

2006

Giuseppe Ardinghi (Lucca 1907- 2007)

Donazioni Giuseppe Ardinghi: 2006

La madre, 1933-37, olio su tela; Mari in attesa, 1934, olio su tela; Olga seduta, 1939, olio su tela; Ritratto del figlio Antonio, 1941, olio su tela; Casa sulla collina, 1975, olio su tela.

Ardinghi iniziò l’attività di insegnamento presso l’Accademia di Bologna, poi a Roma e a Firenze, e infine presso l’Istituto d’Arte di Lucca dopo egli stesso aveva studiato.  Nel 1951 gli viene commissionata la serie delle vetrate per la cattedrale di San Martino di Lucca, cui seguiranno le sedici vetrate e la lunetta per la chiesa di Segromigno in Piano e quelle per la chiesa di Collodi. Ardinghi organizza ogni singola scena con la sobrietà compositiva che gli è propria e adatta la sua tavolozza al nuovo mezzo espressivo, adottando colori accesi inusuali per lui, con l’intento i ricreare volumi compatti e monumentali di chiara derivazione quattrocentesca. Nella sua pittura i ritratti sono costituiti da nature morte e dai paesaggi, soggetti in cui l’emozione è filtro tra la natura contemplata e la sua trasposizione sulla tela. Dal 1999 Ardinghi è stato ispettore onorario del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Nel 1934 il pittore partecipò al concorso “Parenai” inviando un grande olio su tela intitolato La madre: la donna, seduta di profilo, è colta mentre pettina la figlia seduta sul pavimento. Con questo dipinto Ardinghi ottenne commenti favorevoli, confermati anche dall’Esposizione Universale di Parigi del 1937, con il diploma di medaglia d’oro  e in una mostra a Milano. È durante il periodo trascorso a Focettene, 1939, a ridosso della Guerra, che dipinge Olga seduta; nel 1941 realizza il Ritratto del figlio Antonio. Il tema del paesaggio non è mai stato abbandonato dal pittore: uno straordinario esempio è la Casa sulla collina del 1975

 

 

Mari di Vecchio (San Ginese di Capannori 1900- Lucca 1994)

 Donazioni Giuseppe Ardinghi: 2006

Le Focette 1938, olio su tela; Primavera nell’orto in Versilia 1939, olio su tela

Marianna (Mari) Di Vecchio studiò a Lucca presso l’Istituto d’Arte e poi all’Accademia fiorentina, dove incontrò Ardinghi che diventerà suo marito nel 1933. È di quegli anni l’opera  Veduta di San Ginese, uno dei migliori dipinti. Nel 1936 presenta un’opera alla Biennale di Venezia, l’anno successivo verrà chiamata ad esporre alla Rassegna della Federazione Internazionale Donne Professioniste Artisti a Parigi e ad Amsterdam. Dopo un’assidua partecipazione a mostra a Lucca, Viareggio e Firenze, la pittrice decide di continuare l’attività senza presentarsi alle esposizioni, ad eccezione della collettiva del 1968 e per l’ultima personale curata da Ernesto Borelli presso il Museo nazionale di Palazzo Mansi, dove si conservano i due dipinti donati. Nel 2005 in occasione della mostra dedicata ad Ardinghi a Villa Guinigi furono esposte le due opere donate l’anno successivo dallo stesso artista, un anno prima della sua scomparsa.

 

 

Giuseppe Ardinghi (Lucca 1907- 2007)

 

Donazioni Giuseppe Ardinghi

Cartoni per le vetrate della Cattedrale di San Martino a Lucca, 1952-1956; Cartoni per le vetrate delle lunette per la Chiesa di Segromigno in Piano, Capannori-Lucca, 1971; Cartoni per le vetrate della parrocchiale di Collodi, Pistoia 1975. Tempera di vari colori su carta da spolvero.

Nel 1944 una cannonata dell’esercito tedesco cadde sul duomo di Lucca, distruggendo la maggior parte delle vetrate. Nel 1951 l’Opera di Santa Croce della Metropolitana di Lucca bandì un concorso per l’esecuzione di cinque nuove vetrate, il cui programma iconografico era finalizzato a celebrare i santi più cari alla città (S. Martino, S. Paolino, S. Frediano, Santa Zita…)La commissione giudicatrice, presieduta da Mario Salmi scelse quello di Giuseppe Ardinghi, la cui opera fu però criticata dagli esclusi come “un tentativo di Novecentismo difettoso e cubista” e per tanto non adeguato alle vetrate antiche (“Il Tirreno” 10 agosto 1951). Dopo la fase dei bozzetti, realizzati con gessetti colorati su cartoncino nero e poi dipinti a olio sulla stessa tavola, Ardinghi disegnò direttamente sul cartone, apportando alcune correzioni. L’esecuzione dei cartoni e delle rispettive vetrate è avvenuto quasi sempre in parallelo: i lavori iniziarono nel 1952, conil cartone raffigurante Santa Zita, e terminarono nel 1956, con la messa in opera delle vetrate del transetto sud eseguite, come tutte le altre a Firenze, presso la ditta Polloni. Negli esemplari donati dall’Ardinghi è riscontrabile un’evoluzione dello stile: dal tratto appena accennato, si passerà a quello più preciso per la definizione delle linee per il taglio dei vetri, senza sfumature.  

 

 

 

 

2001

ARTURO DANIELE (Lucca 1878- 1944), Il viatico del povero

1920 ca., olio su tela, acquistato nel 2001 per il Museo di Palazzo Mansi

 Nato a Lucca Arturo Daniele si laureò nel 1900 in Farmacia e per un breve periodo esercitò l’attività nell’Ospedale di Maggiano. Il dipinto rappresenta una scena di morte immersa in una atmosfera grave di penombre azzurre e violacee, mentre la luce irrompe dalla porta sulla destra. La tela realizzata negli anni Venti costituisce un importante documento su un periodo della pittura lucchese poco studiato. L’opera è preceduta da interessanti bozzetti, uno dei quali conservato già nei Musei lucchesi.